Durante le ultime due settimane, è esplosa in Italia una piuttosto male informata ma molto accesa polemica sul tema della riforma del Meccanismo di Stabilità Europeo (MES), che l’Eurogruppo dovrebbe approvare a dicembre di quest’anno. Si tratta di un dibattito che lascia perplessi, in particolare perché arriva molto in ritardo: questa riforma si sta negoziando a livello Europeo da quasi due anni, e il testo attualmente in discussione è stato approvato prima a Dicembre 2018 e poi rivisto e riapprovato nel Giugno 2019 – quando molti di coloro che oggi lo contestano erano parte del governo Italiano che sedeva al tavolo dei negoziati. Il dibattito inoltre manca di sostanza, e su alcuni alcuni aspetti sembra esserci davvero molta confusione. Cerchiamo di fare chiarezza sui punti più controversi della vicenda.
1 – Cosa fa il MES?
Una ragione per cui questo dibattito è molto preoccupante è il fatto che rivela un’incomprensione di fondo di cosa sia il MES e del perché sia indispensabile. Un commento pubblicato sul quotidiano economico-finanziario MF/Milano Finanza sosteneva la settimana scorsa che il nuovo MES fosse stato “ideato per favorire la speculazione contro l’Italia”. Il leader della Lega, Matteo Salvini, dal canto suo, ha detto pubblicamente che “il MES ruba soldi ai poveri per darli ai ricchi”. Francesca Donato – Parlamentare Europea della Lega – si è spinta a dire in diretta TV che per la Lega il MES andrebbe proprio “abolito”.
Si tratta di un’affermazione molto pericolosa. Nato nell’ottobre 2012 come successore permanente della temporanea European Financial Stability Facility (EFSF), il MES presta a quei Paesi dell’Eurozona che si trovino a perdere (o rischiare di perdere) l’accesso ai mercati dei capitali. È l’istituzione più simile a un prestatore di ultima istanza che attualmente esista nell’Eurozona. La BCE svolge lo stesso ruolo nei confronti delle banche, ma non può farlo nei confronti dei governi – stante il divieto di finanziamento monetario.
Il MES non “prende soldi dai poveri per darli ai ricchi”: prende soldi dal mercato per prestarli (a tassi vantaggiosi) a quei paesi dell’Eurozona che abbiano momentanee difficoltà a finanziarsi. Il MES ha, infatti, una dotazione di circa €700 miliardi di capitale, che comprendono più di €80 milioni di capitale versato e circa €622 miliardi di capitale richiamabile. Il capitale condiviso permette al MES di finanziare le sue operazioni emettendo bond che hanno un rating più alto (equivalente ad un emettente con rating AAA) dei bond emessi da molti degli Stati membri – inclusa l’Italia. Questo aspetto è cruciale perché permette al MES di prestare a tasso basso a Paesi che altrimenti si troverebbero a fronteggiare costi di finanziamento proibitivi o, come nel caso di alcuni paesi come la Grecia, quando l’accesso al mercato non era proprio possibile. Il MES è quindi una linea di difesa indispensabile contro il rischio di default e la propagazione di questo rischio all’interno dell’Eurozona. Se non ci fosse, aumenterebbe la probabilità che crisi di liquidità gestibili si trasformino in crisi di solvibilità ingestibili e quindi aumenterebbe anche il rischio di prestare a Paesi che hanno debito alto e crescita bassa (come l’Italia).
2 – Cosa cambia con la riforma del MES?
Il Trattato del MES viene rivisto per costituire basa legale per una serie di nuovi compiti che il MES si è visto assegnare nel corso degli ultimi anni. Sotto molti punti di vista, la riforma intende trasformare il MES in qualcosa di più simile a un Fondo Monetario Europeo – sulla falsariga del FMI. La riforma si articola intorno a quattro pilastri, delineati dall’Eurogruppo nel giugno 2019:
- Dal 2024 il MES svolgerà la funzione di backstop comune per il Fondo di Risoluzione Unico (SRF, in inglese). Le dimensioni del backstop saranno allineate con il target SRF, €55 mld circa
- Le linee di credito precauzionali del MES (Precautionary Conditioned Credit Line (PCCL) e Enhanced Conditioned Credit Line (ECCL)) saranno riviste
- Si introdurranno a partire dal 2022 le cosiddette Clausole di Azione Collettiva (CACs) di tipo single-limb in tutti i titoli di stato di nuova emissione
- Il MES giocherà un ruolo più di rilievo nel preparare e monitorare la condizionalità economica associata ai suoi interventi, compreso il monitoraggio della sostenibilità del debito
3 – Pro e Contro
La riforma è un pacchetto e come tale va valutato. In alcuni aspetti, non è abbastanza ambiziosa. In altri, si tratta di un passo avanti importante nel processo di unificazione europea.
Il backstop del MES al SRF è certamente uno sviluppo positivo per l’Italia e per tutti i Paesiche auspicano una maggiore condivisione dei rischi all’interno dell’Eurozona. Durante una crisi bancaria, la domanda di liquiditàpuò schizzare alle stelle. L’attuale framework UE per la risoluzione bancaria prevede che il fabbisogno di capitale sia coperto attraverso bail-in o ricapitalizzazione, ma è più confuso sulla questione della liquidità. Il SRF è l’ovvio candidato per iniettare liquidità in fase di risoluzione, ma la sua potenza di fuoco è, al momento, limitata. L’aggiunta del backstop in parte limita questo problema, anche se il backstop dovrebbe idealmente essere più ambizioso in termini di dimensioni e accessibilità, e sarebbe bene cheì l’Eurogruppo decidesse di renderlo operativo prima del 2024. Pur con questi distinguo, la decisione di permettere al MES di giocare questo ruolo è un passo positivo nella direzione di rendere le banche Europee meno sensibili al rischio domestico – perché permette di condividere almeno parzialmente il rischio in fase di risoluzione.
Le modifiche alla PCCL sono un’occasione mancata. L’idea retrostante è quella di rendere la linea di credito precauzionale più facilmente accessibile a paesi la cui situazione economico-finanziaria sia fondamentalmente solida, ma che si trovino a fronteggiare degli shocks al di là del proprio controllo. Il concetto è quello di un’assicurazione, e lo strumento si ispira a uno di cui anche il FMI dispone. Attualmente, questa assicurazione è costosa: l’accesso alla PCCL richiede infatti che il Paese firmi un Memorandum of Understanding (MoU) che comprende condizionalità. La nuova PCCL sarà invece accessibile senza MoU, per Paesi che rispettino alcuni requisiti di idoneità. L’idea di rendere la PCCL più facilmente accessibile è positiva. Ma nella pratica, le condizioni di idoneità sono così stringenti che solo pochi paesi ad oggi risulterebbero in regola e si rischia è che questo strumento sia inutilizzabile (come discusso nel dettaglio da altri) L’Italia non avrebbe accesso alla PCCL, a meno di non iniziare a rispettare la regola di riduzione del debito includa nel fiscal compact (ovvero una riduzione media annua di 1/20 della differenza tra il nostro rapoporto debito /PIL e il target del 60%). I Paesi che non si qualificano per la PCCL potrebbero comunque ricorrere alla Enhanced Conditioned Credit Line (ECCL), un altro strumento precauzionale che richiede un MoU e condizionalità, ma più “light” rispetto al caso di un vero e proprio programma di aggiustamento macroeconomico.
Sul ruolo del MES nel monitoraggio della sostenibilità del debito c’è molta confusione. Alcuni sembrano suggerire che la riforma introdurrà un automatismo nella ristrutturazione dei debiti dei Paesi che dovessero richiedere aiuto al MES e/o che il MES possa in qualche modo “obbligare” un Paese a ristrutturare. La scelta di prestare solo a Paesi il cui debito sia sostenibile è in linea con quello che fa il FMI (si veda qui per una spiegazione). Il FMI applica condizioni più stringenti – perché se il debito non è sostenibile è richiesta una ristrutturazione. Nel framework del MES, non esiste questo tipo di automatismo esplicito. Il Trattato dice che “in casi eccezionali, e se il supporto del MES è accompagnato da un programma di aggiustamento macroeconomico, va considerata una forma adeguata e proporzionata di private sector involvement”. Questo paragrafo non è nuovo (è già nel Trattato attuale) e si applica solo a quei Paesi la cui situazione è così precaria da richiedere un vero e proprio programma di aggiustamento macroeconomico (non una semplice assistenza precauzionale).
4 – Le CACs sono davvero la fine del mondo?
La ragione per cui la sostenibilità del debito è fondamentale dovrebbe essere ovvia a tutti: l’obiettivo del MES è precisamente quello di arginare una potenziale crisi di solvibilità prima che essa diventi tale. A volte però potrebbe non essere possibile ripristinare la solvibilità di uno Stato attraverso dei prestiti come quelli del MES. In quel caso, alcuni vedono una ristrutturazione del debito come l’unico modo per “ripartire da zero”. A differenza di quanto accade per le aziende, non esiste una procedura di bancarotta per gli stati sovrani. L’unico caso di ristrutturazione del debito mai avvenuto nell’Eurozona (quello della Grecia) ci dimostra quanto sia difficile portare a termine una ristrutturazione senza un framework chiaro. Al tempo stesso, ci dimostra l’importanza di mettere in piedi dei meccanismi legali che rendano l’operazione il più prevedibile e trasparente possible, e che proteggano lo Stato dal ricatto dei cosiddetti ‘hold outs’ – ovvero creditori di minoranza che blocchino la ristrutturazione (come accaduto nel caso dell’Argentina).
Le Clausole di Azione Collettiva (CACs) servono esattamente a questo, perché permettono di cambiare i termini di tutto il debito emesso a condizione che i nuovi termini vengano approvati da una maggioranza (non la totalità) dei detentori. Dal gennaio 2013, tutti i titoli di Stato con durata superiore a un anno emessi da Paesi dell-Eurozona contengono già un tipo di CACs. Si tratta delle cosiddette “double-limb CACs”, che richiedono due tipi di maggioranza diversi per cambiare i termini dei titoli (una maggioranza del totale dei titoli emessi, e una maggioranza a livello di ciascuna “serie”). La riforma del MES introdurrà invece le cosiddette “single-limb CACs”, dove per cambiare i termini di emissione sarà sufficiente una sola maggioranza a livello della totalità dei titoli. Questo riduce il rischio di hold outs, che possono allungare notevolmente i tempi (e far aumentare i costi) di ristrutturazione.
Nel dibattito Italiano sulla riforma del MES, è emersa una paura piuttosto irrazionale delle CACs. Il Presidente dell’ABI ha perfino detto che le banche italiane non compreranno più debito pubblico, se questo verrà emesso con le nuove Clausole. Tra quanti oppongono la riforma del MES sembra prevalere l’opinione che l’introduzione delle CACs farebbe per se aumentare la probabilità di dover ristrutturare il debito, e quindi porterebbe a un aumento del costo di finanziamento. Ma questa paura è infondata: la probabilità di dover ristrutturare dipende dalla sostenibilità del debito, che a sua volta dipende dai fondamentali macroeconomici (crescita, inflazione, deficit) e dal costo di finanziamento. Le CACs non hanno alcun effetto sulla crescita, l’inflazione, o le scelte di politica fiscale del governo.
La vera domanda è quindi se l’introduzione di queste Clausole possa avere un effetto sul costo del debito, tale da metterne a rischio la sostenibilità. La risposta è no, e la ricerca in realtà punta nella direzione opposta. Carletti et al. (2019) per esempio mostrano che i bond emessi nell’Eurozona dopo il 2013 (quindi contenenti le CACs di prima generazione) vengono scambiati a tassi d’interesse più bassi rispetto a bond in tutto e per tutto simili ma non contenenti CACs. Questo perché le clausole sono un segnale che gli investitori associano a una maggiore trasparenza e certezza. Attualmente, circa il 68%[1] di tutti i titoli di stato Italiani in circolazione (esclusi i BOTs) contengono double limb CACs, in quanto emessi dopo il 2013. E, ciononostante, la spesa per interessi aggregata non è aumentata dopo il 2013. L’unico episodio recente in cui i rendimenti sui titoli di Stato Italiani sono aumentati si è verificato nell’estate 2018, ed era chiaramente legato al nostro rischio politico idiosincratico.
Inoltre, le single-limb CACs verranno introdotte gradualmente, man a mano che i titoli in circolazione matureranno a partire dal 2022. Sulla base dei titoli in circolazione, e assumendo che il totale di titoli emessi non aumenti, ci vorranno circa 7 anni prima che queste vengano introdotte sull’equivalente del 50% dei titoli attualmente in circolazione e molti anni prima che le single limb CACs coprano effettivamente tutto il debito. La paura delle CACs sembra quindi poco giustificata, a meno che non si ritenga che i governi Italiani siano incapaci di far ripartire la crescita e di tenere le finanze pubbliche sotto controllo nel medio termine (per esempio nei i prossimi 7 anni). Se così fosse, però, le CACs sarebbero davvero l’ultimo dei nostri problemi.
5 – E quindi cosa dovrebbe fare l’Italia?
La reazione che abbiamo visto in questi giorni ha un minimo comune denominatore: indipendentemente dalla parte politica, non si vede da parte di chi critica questa riforma alcuna volontà o intenzione di fare proposte costruttive per cambiarla. Al tempo stesso, si sembra sorvolare sul fatto che questa riforma recepisce alcuni punti fermi e non negoziabili avanzati dal nostro ministero del Tesoro nel corso delle negoziazioni (come per esempio l’assenza di alcun automatismo di ristrutturazione del debito).
La riforma è un pacchetto, e come tale va valutata . E, con questa prerogativa, ci sono aspetti che per l’Italia sono positivi – perché vanno nella direzione di aumentare la condivisione dei rischi nell’Eurozona – e ci sono altri aspetti che al nostro Paese piacciono meno – come le CACs, ma che sono ormai standard nel mercato dei capitali. Tirarsi indietro ora, dopo avere passato quasi due anni al tavolo a cui questa riforma è stata negoziata, manderebbe il segnale che l’Italia non è in grado di mantenere una posizione coerente. Questo ci isolerebbe dai nostri partner Europei, in un momento in cui si apre una preziosa opportunità di far avanzare altre discussioni molto importanti per l’Italia, come quella su EDIS – l’assicurazione Europea comune per i depositi bancari – e quella sul Bilancio Comune per l’Eurozona (dove dovrebbe concentrarsi l’attenzione del nostro governo, perché lì davvero ci sono molte cose che andrebbero cambiate e che ancora possono esserlo).
Ancora più importante, tuttavia, è un punto che nel dibattito italiano riceve sorprendentemente poca attenzione. Porre il veto alla riforma del MES manderebbe un segnale molto pericoloso a chi investe nel nostro debito. L’irrazionale paura delle CACs tradisce una preoccupazione più profonda – ovvero che l‘Italia, con il suo 135% e più di debito sul PIL, non abbia fatto abbastanza in questi anni per mettersi completamente al riparo dalla necessità di poter un giorno aver bisogno del MES. Come scritto recentemente anche da Carlo Cottarelli, in Italia alla fine il vero problema resta sempre la necessità di ridurre il debito pubblico.
Alan Posner scriveva nel lontano 1977 che la strategia di politica economica internazionale tipicamente adottata dall’Italia consisteva all’epoca nel far leva sul fatto che i nostri partner non potessero permettersi il nostro fallimento. Purtroppo, sembra essere cambiato molto poco, in questi 40 anni. Piuttosto che averne paura, gli Italiani dovrebbero vedere le nuove CACs come un elemento che finalmente responsabilizzi i nostri (volatili) governi sul tema del mettere in sicurezza le finanze pubbliche. Bloccare questo cambiamento darebbe un segnale di inaffidabilità, che farebbe al nostro costo di finanziamento molto più male di quanto qualsiasi tipo di CACs potrebbe mai fare. Nel discutere la riforma, il Parlamento dovrebbe considerare che anche l’inaffidabilità ha un costo, e che per noi quel costo è troppo alto.
[1] Calcolo basato su tutte le securities outstanding disponibili su Bloomberg. Uso il 2013 come cut-off point, ma durante il 2013 il Tesoro Italiano ha emesso alcuni bond privi di CACs, quindi la percentuale di titoli non contenenti le Clausole potrebbe essere leggermente più alta di quanto calcolato qui.(si veda anche Panizza et al. 2019)