Perché la politica, che sola ha il potere di tradurre le analisi in leggi, non fa propria la frase di Cavour “…le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”?
Mario Draghi
L’alternanza di governi politici e tecnici rappresenta una tradizione consolidata della storia dell’Italia repubblicana sin dal 1953. In un Paese caratterizzato da una strutturale alta volatilità politica, i primi ministri tecnici tipicamente sono chiamati a far approvare quelle misure ritenute necessarie ma troppo impopolari perché possano essere prese dai politici, preoccupati da una potenziale elezione sempre dietro l’angolo. Un noto caso è quello del governo tecnico Monti, entrato in carica nel 2011 nel mezzo di una crisi dell’Eurozona dove l’Italia era a un passo dal perdere l’accesso ai mercati.
Data la lunga esperienza del Paese con governi tecnici, non sorprende che Mario Draghi sia stato chiamato come primo ministro a guidare l’Italia attraverso uno dei momenti più complessi del periodo post-bellico. Riuscirà nella sua missione? E cosa c’è in gioco per l’Italia e l’Europa, dovesse fallire?
Un mandato limitato, dalle vaste implicazioni
Dal punto di vista economico, Draghi comincia il suo mandato di Presidente del Consiglio con un obiettivo sopra tutti: garantire al Paese la sua quota del programma Next Generation EU, in particolare i 65 miliardi di euro di trasferimenti dal Recovery and Resilience Facility, di cui l’Italia è il maggior beneficiario in termini assoluti. Questo mandato relativamente limitato ha nei fatti implicazioni economiche assai vaste, dal momento che l’accesso ai fondi richiede l’allineamento del Paese alle raccomandazioni della Commissione Europea, pertanto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) comporterà l’implementazione di significative riforme strutturali.
Proprio questo elemento di riforma del PNRR espande il mandato di Draghi nella direzione di un più ampio progetto per affrontare le debolezze di lungo corso del Paese, nel tentativo di aumentare il potenziale di crescita. Nel corso della sua vita Draghi ha coniugato esperienza nell’accademia, nel settore privato e nella burocrazia. Prima di essere “Super Mario”, è stato governatore della Banca d’Italia e Direttore generale del Tesoro, posizioni in cui dimostrò già fini abilità diplomatiche e prese parte alla gestione delle più importanti imprese pubbliche italiane. Che visione per l’Italia c’è da aspettarsi, alla luce del suo percorso?
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Dottoratosi presso la prestigiosa facoltà di economia del MIT, nella sua tesi – scritta sotto la supervisione del premio Nobel Franco Modigliani – Draghi si concentrò sui problemi chiave che dovrà affrontare da primo ministro italiano: la relazione tra produttività e PIL, e il trade-off tra obiettivi di corto e lungo periodo. In Italia tra il 1995 e il 2018 la crescita annua della produttività del lavoro si è attestata allo 0,4%, quella del capitale allo 0,7%, e allo 0% la produttività totale dei fattori. Nel 2018 sono state registrate crescite negative. Si potrebbero scrivere libri sulle ragioni di questa stagnazione, ma i principali indiziati sono una struttura di micro-imprese, un mercato del lavoro disfunzionale, un sistema educativo inefficiente nel produrre le competenze necessarie, ed istituzioni fallimentari nella riqualificazione professionale e nello sviluppo di un ambiente favorevole all’impresa.
Debito buono, debito cattivo?
L’elefante nella stanza è e continuerà ad essere l’elevato livello debito/PIL italiano, che dovrebbe attestarsi poco sotto il 160% al termine della pandemia. Al momento ogni proposta di austerity sarebbe fuori luogo, ma la questione di come gestire questo debito dovrà essere affrontata – a maggior ragione considerato che l’Europa dovrà discutere se e come riformare le regole fiscali UE (attualmente sospese) una volta terminata la crisi sanitaria. Draghi ha sostenuto sin dall’inizio della pandemia che gli alti livelli di debito pubblico sono qui per restare, ma ha anche fatto un’attenta distinzione tra debito “buono” (produttivo) e “cattivo” (improduttivo). Fin ora l’Italia ha accumulato troppo del secondo, per questo il compito cruciale del governo Draghi sarà di assicurarsi che la mole di prestiti che riceveremo tramite il Next Generation EU sia del primo tipo.
Negli anni novanta, il Paese ha affrontato una crisi di fiducia quando i mercati iniziarono a mettere in dubbio la sostenibilità del debito pubblico. L’Italia riuscì a superarla senza appoggio estero grazie a un ambizioso piano di consolidamento fiscale, riforme strutturali e un piano di privatizzazioni pari al 10% del PIL. Una soluzione simile fu attuata nel 2011, quando il governo tecnico Monti fu nominato col compito di applicare tagli di spesa e un controverso piano di riforma pensionistica divenuto un leitmotiv del dibattito politico italiano. Questa volta è diverso: Draghi entra in carica col mandato di spendere, non di tagliare, e ha già dichiarato che non saranno necessari aumenti delle tasse. Al contrario, nel suo discorso inaugurale ha espresso l’intenzione di semplificare il sistema tributario e di ridurre la tassazione sui redditi da lavoro. Riguardo la tassazione sulle società, il nuovo Presidente del Consiglio ha ricordato in diverse occasioni come le imprese italiane non diversifichino le loro fonti di finanziamento – che deriva principalmente da debito bancario a breve termine – e abbiamo poco capitale proprio (particolarmente necessario nella crisi corrente) rispetto ai competitor stranieri. Come possibile soluzione al problema, nel passato ha citato un abbassamento della tassazione sugli utili, misura che pertanto non dovrebbe essere esclusa. Il finanziamento di tali misure dovrebbe derivare da un’abbassamento dell’evasione fiscale, che dovrebbe essere facilitata dalle misure introdotte dal governo precedente per aumentare la diffusione dei sistemi di pagamento elettronici. Grazie ai fondi che arriveranno dall’Europa – in modo particolare i trasferimenti, che non avranno un impatto diretto sul livello di debito dei paesi riceventi – e ai programmi di acquisto della BCE, il debito italiano è su un percorso sostenibile fintanto che la fiducia dei mercati è assicurata (fatto facilitato dalla presenza di Draghi). Più importante, se l’iniezione di investimenti dal Next Generation EU dovesse avere successo nello stimolare la crescita, le attuali condizioni di finanziamento sarebbero consistenti con una diminuzione del debito anche in assenza di avanzi primari. Sebbene un ritmo di riduzione del debito in linea con le regole europee di un ventesimo all’anno sarebbe insostenibile e inopportuno dopo il maggiore shock economico del dopoguerra, una riduzione più lenta sarebbe fattibile senza richiedere austerità. In altre parole: un “debito buono”, se accompagnato con riforme per rimuovere i colli di bottiglia strutturali che hanno impedito la crescita, creerebbe le condizioni affinché l’Italia riduca senza grossi sforzi il peso del debito a livelli che sarebbero non solo più sicuri in termini di percezione dei mercati ma anche in termini di spazio fiscale nel caso di shock futuri.
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Distruzione Creativa?
Tuttavia, non tutte le misure che il nuovo Presidente del Consiglio dovrà prendere saranno popolari. In diverse occasioni Draghi ha indicato come i tentativi dei governi per contenere la crisi rischino di produrre un’ondata di imprese zombie. Ci aspettiamo pertanto che questo governo passerà al vaglio le imponenti misure di supporto messe in piedi come risposta d’emergenza alla pandemia. La motivazione, espressa dal premier nel recente documento del G30 e rimarcata nel suo discorso al parlamento, ricalca la sua visione del debito: il governo dovrebbe intervenire solo quando le inefficienze di mercato risultano particolarmente forti, dal momento che “ogni spreco oggi è un torto alle nuove generazioni”. Di conseguenza, non sono necessari finanziamenti pubblici alle grandi imprese che possono accedere a finanziamenti di mercato a basso costo, mentre le PMI con minor potere contrattuale potrebbero necessitare di più aiuto, ragion per cui sussidi parziali potrebbero rimanere in piedi.
I dati mostrano come le garanzie statali abbiano finora evitato un’ondata di fallimenti, con valori per i primi tre trimestri del 2020 inferiori del 15% rispetto alla media degli anni precedenti. Ciò rappresenta un dilemma per il governo, che dovrà trovare un punto di equilibrio tra il tentativo di evitare un picco di insolvenze e il rischio di permettere un’eccessiva zombificazione. Sulla base delle posizioni espresse finora, è ragionevole aspettarsi che il governo si muoverà da un framework di misure a tutto campo verso interventi mirati, consentendo una certa riallocazione di risorse. Come detto dallo stesso Draghi, il governo deve proteggere i lavoratori, ma proteggere tutte le attività economiche senza distinzioni sarebbe un errore. Per quanto nazionalizzazioni limitate siano possibili, un supporto in forma di credito mirato e strumenti quasi-equity è la più probabile linea di condotta.
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Oltre l’Italia
La nomina di Mario Draghi avrà importanti ripercussioni anche a livello di Unione Europea. Essendo uno dei più esperti leader nel panorama europeo, Draghi si trova nella posizione migliore per sostituire Merkel alla guida del processo di integrazione dell’Unione ora che la cancelliera tedesca è giunta al termine del suo mandato, mentre il Presidente francese dovrà affrontare nuove elezioni nel 2022. In passato Draghi ha espresso il suo supporto a un progetto di revisione delle regole fiscali europee e ha difeso i bassi tassi di interesse dalle critiche tedesche. Ma la sua visione si basa sulla coesistenza di solidarietà e responsabilità, pertanto c’è da aspettarsi che, mentre farà leva sul sostegno europeo per stabilizzare la posizione finanziaria dell’Italia, tenterà di restiturie capitale politico al Paese attraverso una chiara assunzione di responsabilità.
Da contribuente netto al budget europeo, l’Italia diventa per la prima volta sotto il Next Generation EU un beneficiario netto di trasferimenti fiscali. Ciò crea una responsabilità enorme per il Paese, dal momento che un fallimento nel tornare alla crescita significherebbe non solo uno spreco di risorse europee ma anche la fine del primo passo verso una vera unione fiscale. Per tale ragione, in questo contesto la crescita non è solo una necessità economica per l’Italia, ma anche un imperativo politico. Draghi ha avvertito il parlamento che ora è il momento di agire con coraggio senza sprecare tempo, chiedendo una “ricostruzione” dell’Italia. Probabilmente sa meglio di chiunque altro cosa sia necessario fare per cogliere questa opportunità unica e affrontare le debolezze del Paese. Se dovesse riuscire nella sua missione, si troverà nella posizione di dare forma al processo di integrazione europea per gli anni a venire.